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Miserere mei, il libro di Giorgio Tognola

In questo blog mi fa piacere ospitare un libro della casa editrice elvetica "L'Ulivo", a firma di Giorgio Tognola, e dedicato alla Mesolcina e alla Val Calanca, due realtà del Grigioni che ho trattato nel volume "Una memoria per gli emigranti" inserito nella collana Questioni di identità.




Per più di trent’anni è stato insegnante e da dieci anni è pensionato; il suo tempo lo trascorre occupandosi dei familiari - sparsi tra il Ticino, Ginevra e l'Africa -, del giardino, dell’orto e non mancano passeggiate nei boschi alla ricerca di funghi. Trova un po’ di spazio anche per curiosare nelle biblioteche e negli archivi della Svizzera di lingua italiana. Stiamo parlando di Giorgio Tognola, originario di Grono, che recentemente con le Edizioni l'Ulivo ha pubblicato il volume “Miserere mei”, dove ha raccolto quattro racconti ambientati nei secoli scorsi in Val Calanca e nella Mesolcina, e ha come protagonisti ufficiali, umili donne condannate come streghe, contadini e religiosi.

Prof. Tognola, perché questo titolo al suo libro?
Si tratta del titolo del primo racconto inserito nel volume e che, in un certo senso, ho “rubato” al grande poeta milanese Carlo Porta.

In che periodo ha scritto i racconti inseriti nel volume?
I quattro racconti del libro sono stati pensati per tanti anni, poi, una volta cessata la mia attività di insegnante, ho trovato il tempo di scriverli e di presentarli a un ristretto gruppo di amici.

Nei suoi racconti c'è un misto di verità attinta dalle sue ricerche archivistiche e fantasia. Perché questa formula?
Pensando ai miei potenziali lettori ho voluto rendere lo scarno documento da me consultato un po’ più appetibile ricamandogli attorno qualche cosetta in più.

Quali documenti ha consultato?
Tanti! Ad esempio ho avuto modo di studiare il verbale di un interrogatorio di una presunta strega trovato nell’angusto archivio di Roveredo (Grigioni italiano), il malridotto quinternetto del medico di Soazza ora custodito nell’“Archivio a Marca” di Mesocco, il “liber defunctorum” tenuto dai cappuccini di Santa Maria di Calanca, il verbale del viceprefetto dei cappuccini di Mesolcina e Calanca che si trova nell’Archivio dei cappuccini della Salita dei frati di Lugano, il testamento che un’anziana signora mi ha permesso di fotocopiare, il testamento di Antonio Gioiero pubblicato sui Quaderni Grigionitaliani. Tutti questi documenti mi hanno suggerito le storie. Quale insegnante riuscivo ad accalappiare - purtroppo non sempre - l’attenzione degli allievi con i bei racconti della storica Eileen Power (1899-1940), ed è proprio grazie alla storica inglese che riuscivo ad introdurre e sviluppare i temi non sempre facili che il programma di storia prevedeva nei quattro anni di scuola media. I miei quattro racconti sono cresciuti anche pensando a “Vita nel Medioevo” (Einaudi, 1966), “C’eravamo anche noi” (Bovolenta, 1981), “Ragazzi nella storia” (Bovolenta, 1982) e tre libri di Eileen Power.

Nel primo racconto descrive la vita in montagna e i processi per stregoneria. Su quest'ultimo aspetto, e in qualità di storico, quali sono le sue considerazioni?
La miseria costante, l’insicurezza, l’essere in balia delle forze della natura, la fragilità e la paura legate al mondo della montagna, l’ignoranza, le allucinazioni possono spiegare solo parzialmente quel fenomeno assai complesso che conosciamo come “caccia alle streghe”. Queste spiegazioni sono però insufficienti, in quanto la persecuzione delle streghe fu soprattutto un atto di intolleranza sociale; essa è coincisa con momenti di paura (eresia luterana, peste, guerre, e altro ancora) in cui gli uomini vedono venir meno il loro potere, gli uomini non pensano più con lucidità, si rifugiano su posizioni immutabili, sui pregiudizi. In tempi sereni ci si può concedere il lusso dello scetticismo, ma quando infuria le tempesta gli uomini si rifugiano nel conservatorismo, nell’ortodossia. Queste sono un po’ le mie considerazioni a proposito del fenomeno della stregoneria.

Nel racconto "Historia di un franco valligiano in rozza casacca", dedicato al colonnello e cavaliere pontificio Giovanni Antonio Gioiero, originario della Val Calanca, qual è il confine tra la realtà e la fantasia?
Per la storia di Antonio Gioiero mi sono basato sul libretto del canonico Simonet, pubblicato a Roveredo nel 1926, sul testamento del cavaliere, sulle annotazioni del genero del Gioiero a Marca. Mancavano documenti (e non poteva essere altro) sull’infanzia, l’adolescenza, gli studi, l’inizio della sua carriera militare, sugli amori proibiti e sui suoi due figli naturali. L’incontro con il sacerdote Nicolò Rusca è pure frutto della mia fantasia, anche se alcuni storici ipotizzano una presenza del Gioiero nel Collegio elvetico di Milano. La morte causata dal veleno è documentata, non si conosce invece colui o coloro che l’hanno somministrato.

La Mesolcina e la Val Calanca viste da uno storico e scrittore. Cosa rimpiange dei tempi andati e cosa cambierebbe, invece, della vita di tutti i giorni?
Non sono né storico, né scrittore e del passato non rimpiango niente (la gioventù che non c’è più, quella sì). Sul territorio che ho conosciuto in gioventù il bosco, la foresta, l’incolto stanno riconquistando campi, prati, pascoli, nuclei di cascine; nei villaggi la memoria del passato, del genere di vita caratterizzato dalle fatiche delle donne, dall’emigrazione dei maschi è un tenue ricordo di pochi. Forse per meglio apprezzare quanto si ha in questo secolo un po’ di memoria del passato non guasterebbe.

In alcuni incisi lei ha usato delle espressioni dialettali. Quale futuro vede per il dialetto della bassa Mesolcina?
Nel primo racconto ho usato anche il dialetto. Me lo ha suggerito la scrittrice Laura Pariani di “Il paese delle vocali” e di “La signora dei porci”. L’ho usato perché mi sembrava la lingua più adatta nella bocca di contadini, di alpigiani di allora. Il dialetto usato ora mi sembra un po’ una moda destinata a soccombere di fronte all’incalzare del mondo globale. Il dialetto era sì la lingua della madre, dei sentimenti, del calendario dettato dalla Chiesa, ma era principalmente la lingua del lavoro indissolubilmente legata al territorio, al lavoro dei contadini, degli alpigiani, dei boscaioli, attività che nella maniera descritta dai racconti non esistono più.

Per promuovere e tutelare la cultura locale è molto importante il ruolo svolto dalle case editrici. Alla luce di questa sua esperienza come autore di un libro, come giudica il panorama editoriale nella Svizzera di lingua italiana? Cioè, soprattutto per i giovani autori mesolcinesi, ci sono, dal suo punto di vista, concrete possibilità per scrivere, pubblicare, promuovere e diffondere libri?
Non posso esprimermi sul ruolo delle case editrici nella Svizzera italiana, non lo conosco. Avevo letto i miei quattro racconti ad alcuni amici, i quali mi hanno consigliato di proporli ad un editore; l’ho fatto e la prima casa editrice interpellata me li ha pubblicati.

Ultima domanda: un buon motivo per proporre la lettura dei suoi racconti.
Ad alcuni sono piaciuti! Provate anche voi a leggerli.
[a cura di Carlo Silvano]

Giorgio Tognola, “Miserere mei - Pagine di vita mesolcinese e calanchina tra stregoneria, religione, politica e emigrazione dal 1500 al 1700”, edito dalle Edizioni Ulivo di Balerna nella collana "I randagi", pp. 123, CHF 25, Euro 17.
Il prof. Tognola è anche autore di un libriccino (dedicato al comune in cui vive da oltre trent’anni) intitolato “Momenti di storia di Bedano” (2003); attualmente sta preparando un percorso storico del villaggio calanchino di Rossa. Per altre info consultare il sito http://www.ilmoesano.ch/dove è inserita una recensione del libro a firma di Cesare Santi.

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