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A colloquio con Dieng

Ho iniziato a scrivere un nuovo libro: sto raccogliendo le interviste rilasciatemi da Dieng Cheikh - un cittadino italiano di nazionalità senegalese - sulla sua esperienza di immigrato in Italia. Spero di pubblicare il libro a breve. Intanto, in questo blog, anticipo alcuni brani tratti dall'intervista.

Dieng, in quale Paese sei nato?
Sono nato nel 1963 in Senegal, in una località chiamata Tassette che, nella nostra lingua dialettale wolof, significa “luogo di incontri”.

Mi puoi parlare della tua famiglia di origine?
Mio nonno era di “sangue blu” – apparteneva alla stirpe dei thiedo – e possedeva una casa così grande che sembrava un piccolo villaggio dentro il villaggio. Questa casa poteva ospitare un tale numero di persone che a volte si faceva fatica a riconoscere i propri famigliari dai griot1 e dagli schiavi. Grazie alla sua ricchezza e al suo carattere tipico dei thiedo, mio nonno dominava su tutto e oggi sarebbe stato considerato un dittatore dei tempi moderni: era ricco ed aveva anche una certa influenza nella vita politica in un periodo coloniale e di schiavitù.

Tuo nonno dava lavoro a molte persone?
Sì, soprattutto durante la stagione delle piogge quando tanti uomini pur di mangiare e avere un tetto venivano a lavorare i suoi campi e a curargli il bestiame. Per devozione quasi tutti i lavoranti imponevano ai propri figli il nome di mio nonno.

Quando tuo nonno è morto chi ha preso il suo posto?
Nessuno.

Perché?
Per varie ragioni. I suoi figli erano tanti, e poi avanzava una nuova era religiosa e la società senegalese stava cambiando: quando un ricco muore i familiari si dividono tutto senza fare investimenti, e ciò un po' per cultura, un po' per mancanza di fiducia tra gli eredi.

Tuo padre come ha vissuto questa situazione?
Bisogna tener presente che il mio papà non è cresciuto in casa del nonno in quanto viveva con un altro signore che gli insegnava il Corano. Non è stato un periodo facile perché quando mio padre mi raccontava quello che ha sofferto con quell'insegnante, a me venivano le lacrime agli occhi, soprattutto perché mio nonno era ricco e poteva risparmiare a mio padre certe sofferenze...

Poi c'era tua madre. I tuoi genitori come si sono conosciuti?
Mia madre mi raccontava che mio padre la sposò da giovane senza il suo consenso: fu un tipico matrimonio combinato all’africana. Anche adesso abbiamo una famiglia grande, perché mio padre, con la scusa che la legge musulmana permette di sposare tante donne, si è beccato quattro mogli, e di fratellastri non so quanti ne ho!

Qual è stata la persona che ti ha insegnato i valori più importanti?
E' stata mia nonna e ogni volta che ci penso mi viene spontaneo ringraziarla dicendo: pace all’anima sua! E' stata mia nonna che mi ha insegnato il rispetto verso me stesso e verso gli altri, la solidarietà, la pace e questo anche se sono uno che ogni tanto si scalda. Per me, e lo devo sempre alla mia nonna, è importante dire la verità e avere senso di responsabilità. Mi ricordo che quando andavo in vacanza da un mio zio, il quale abitava in un altro villaggio, mia nonna non mancava di dirmi: “Quando vai in un altro posto devi vivere come vivono le persone di quel posto. Ti devi adeguare. Non dire alle persone che ti ospitano che tu hai un altro modo di fare; cerca invece di capire perché loro vivono diversamente da te”. Per mia nonna era molto importante cercare il confronto con gli altri perché, come mi spiegava, in questo modo si riesce a dare il bene che si ha dentro e a ricevere il bene che l'altro – il tuo interlocutore – ha dentro di sé. Questo insegnamento l'ho sempre tenuto presente e mi è servito tantissimo.

Hai vissuto in un contesto familiare molto diverso dalla tradizionale famiglia italiana, e allora mi chiedo: come hai vissuto la tua infanzia?
La mia infanzia l’ho trascorsa come tutti i bimbi africani, i quali, a cinque anni, già devono imparare ad arrangiarsi. Io sono stato un bimbo molto vivace, coraggioso e anche litigioso. Facevo parte di un gruppo di bambini dove per “sopravvivere” bisognava sapersi difendere: chi non lo era, stava chiuso in casa. Sono stato anche molto fortunato perché avevo la nonna e una sorella più grande che davano una mano alla mamma. Mio padre non era quasi mai a casa perché faceva l’autotrasportatore a Dakar, distante circa ottanta chilometri da casa, e ritornava ogni fine mese. Quando ritornava, per noi era come se fosse Natale. Ricordo che mio padre non era cattivo, ma severo, soprattutto quando si trattava di rispettare le sue regole. Avevo compreso questo lato di mio padre e, allora, quando noi ragazzi combinavamo un guaio, sapevo che dicendogli la verità evitavo la sua rabbia e la sua punizione.

Da piccolo giocavi o dovevi già lavorare?
Quando c'era bisogno capitava che io, insieme ad altri bambini, portassi al pascolo le capre. Della mia infanzia, però, ricordo anche tanti giochi: li inventavamo noi stessi perché non avevamo giocattoli. Anzi, ora che ricordo, in tutto il villaggio esisteva una vecchia e sgangherata bicicletta che il proprietario affittava a noi bimbi: con un franco si poteva fare un solo giro, e dovevi fare tanta fatica perché la bici non aveva un copertone.

Il tuo ricordo più bello dell'infanzia?
A me fa molto piacere ripensare a quando mi hanno iscritto alla scuola elementare, e ringrazio sempre mia zia che l’ha fatto all’insaputa di mio padre approfittando che era in viaggio. Infatti, quando ritornò si imbestialì. Comunque, io me la cavavo sempre perché nei miei confronti mio padre aveva un certo affetto che nasceva anche dal mio impegno scolastico e dalla mia disponibilità nei lavori domestici.

Come mai?
Lui voleva farci imparare il Corano, proprio come lui stesso lo aveva appreso.

A parte la scuola, cosa ti piaceva del tuo paese?
Quando ero bambino, il mio villaggio era molto bello, perché ogni lunedì si faceva festa, proprio come avviene in Italia il giorno di domenica. Non si lavorava e c’era il mercato settimanale. Ricordo che si svolgevano anche dei tornei di calcio e di lotta tradizionale, che somiglia molto alla lotta greco-romana. Mia madre mi mandava a vendere i bignè e mi dava anche la provvigione...

Cosa ci facevi con i soldi guadagnati?
Mi pagavo l’ingresso per la festa di quel giorno e avevo la possibilità di andare a fare festa anche negli altri villaggi quando c'erano le feste tradizionali. Con i miei amici andavo anche a caccia con i cani, e a ogni preda presa era festa infinita. Ricordo le tante lepri catturate e le quaglie, che pure finivano su una brace improvvisata. Se poi capitava che mio padre ritornava da un viaggio senza trovarmi a casa e veniva a sapere che ero andato a caccia, allora lui, per orgoglio, comprava una capra e così si mangiava carne.

Sono dei bei ricordi! Il tuo villaggio, però, immagino che sia cambiato rispetto a trenta-quarant'anni fa...
E' senz'altro migliorato: oggi c’è la corrente elettrica, i rubinetti con l'acqua potabile, un'infermeria, una cassa di risparmio e di credito popolare; anche la mia scuola elementare si è ingrandita, con una parte di essa trasformata in scuola media.

C'è stata anche una crescita culturale?
A me pare che la mentalità della popolazione non sia cresciuta: la cultura e i costumi di un tempo dominano ancora, e la gente ha anche sofferto a causa dell’esodo rurale, soprattutto nei tempi recenti per la poca pioggia. In questa situazione i politici usano la popolazione del villaggio come riserva elettorale.

Si potrebbe puntare sull'istruzione per dare una svolta e per costruire qualcosa di duraturo?
La scolarizzazione non è elevata e questo per colpa della religione e della tradizione. [continua...]


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Nota: 1 Il termine “griot” significa “cantante”.

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