di Giulia Cananzi (1)
[don Claudio Miglioranza a San Vito d'Altivole, 26 agosto 2008]
un lungo rosario bianco, mentre il più loquace di tutti, Cheihk – si concederà un paio di brevi battute – sta cucinando per la ciurma. «Noi parliamo parliamo, loro zitti. Stanno insieme da anni eppure non sanno molte cose gli uni degli altri. Da loro ho imparato che non si comunica solo con le parole. Peccato cucinino così male. Hanno tutti mal di stomaco ma continuano a fare salse allucinanti». Lo fa per provocare, Cheihk sorride e continua flemmatico a bruciare le piume residue di una coscia di pollo sulla fiamma. «Vedi, non parlano. Tanto che sono arrivato a chieder loro se sono io che li ospito o se sono loro ad ospitare me». Cheihk esce dal silenzio e azzarda la battuta con il suo italiano un po’ nasale: «Lo sai. Siamo noi che ospitiamo te». Claudio ha scelto di vivere con sette senegalesi, lo fa da vent’anni. «Appartengono a una confraternita di musulmani molto osservanti, i Mourid, un altro mondo per me tutto da scoprire». Dal punto di vista antropologico è molto interessante ma la domanda di fondo resta: che ci fa un prete cattolico con sette musulmani superosservanti e silenziosissimi, in una casa di campagna isolata con un crocifisso di ferro sulla porta? Ci accomodiamo nella piccola rilegatoria per l’intervista. Claudio ha fatto un po’ di spazio sul grande tavolo da lavoro colmo di carte e di articoli di giornale. L’ordine non dev’essere il suo forte. Dietro di noi crepita la vecchia stufa, intorno odore di fumo e di ricordi.
[don Claudio con don Silvio Favrin a San Vito d'Altivole, 26 agosto 2008]
«L’Argentina mi ha sconvolto la vita. Non era solo la povertà che ti provocava, era l’ingiustizia fatta sistema. Ho vissuto tutta la dittatura militare, fino a Videla. Ero andato a vivere in una villa miseria, una baraccopoli, dal nome ameno “Jardin”, cioè giardino. Non c’era solo povertà, c’era paura, incertezza, tensione. La guerriglia bruciava sotto la cenere, mentre le autorità vivevano con lo spettro del comunismo». Un’esperienza popolare fortissima che si era fusa con un’esperienza ecclesiale provocatoria, quella dei preti del Terzo mondo, all’indomani della Conferenza episcopale di Medellin (1968), nella quale la Chiesa aveva preso posizione a favore dei diseredati e delle loro lotte. «I preti del Terzo mondo lavoravano nelle villas miserias – continua Claudio –, alcuni sono scomparsi durante la dittatura: da loro ho imparato la passione e la fedeltà al popolo. Anche se oggi sorrido un po’ di questo concetto: che significa popolo? Lì però ho vissuto il loro travaglio interiore, le loro difficoltà con le gerarchie, il loro tentativo di costruire dal basso le fondamenta della Chiesa».
E tu che cosa hai scelto per te?
«Dopo averci pensato su e frenato l’impulso tipico del missionario di fare la parte di quello che risolve, ho deciso due cose: non avrei fatto proprio nulla, sarei rimasto a guardare per capire, mi sarei inserito pian piano nelle loro vite e insieme avremmo costruito la Chiesa, che è fatta prima di uomini e donne e poi di mura. Così ho iniziato a frequentare la commissione di quartiere, l’associazione dei genitori della scuola elementare, le riunioni organizzate da un ambulatorio. La seconda cosa che ho deciso è che avrei lavorato, esattamente come i miei parrocchiani. Volevo mantenermi finché la gente stessa non sentisse l’esigenza di sostenere il mio servizio. Sognavo
una Chiesa che si fissava dal basso. Così, ho preso carta e penna e ho scritto ai miei amici in Italia: “Non biasimatemi ma penso di rinunciare al vostro aiuto economico”. Lì però è finito l’aiuto e anche la corrispondenza».
Ma chi te l’ha fatto fare?
«La mia scelta m’impegnava a vivere la normalità, ho cercato di rifiutare tutto ciò che poteva agevolarmi, che poteva mettere una distanza, quasi una forma di potere tra me e loro. Oggi anche questo mi suona presuntuoso perché scegliere la povertà non è mai come esserci nato.
Ricordo un episodio: lavoravo con pico y pala (con pala e piccone), come dicono là, per fare uno scolo, a un certo punto, l’altro operaio, un ragazzo argentino, mi ha detto: “è comodo fare il curita trabajador (il pretino lavoratore) quando puoi farne a meno”. È stato tremendo. Però, d’altra parte, mettersi a mangiare insieme a mezzogiorno sui rovinassi è una delle più grandi soddisfazioni della vita».
La Chiesa locale ti appoggiava?
«Diciamo che con il Vescovo avevo qualche divergenza di vedute. Ero pur sempre un prete che non sembrava un prete, che non aveva chiesa né aspirava a costruirne una di mattoni e che per giunta lavorava. E allora ho deciso di non avere un lavoro ufficiale e anche questa è stata una grazia. Perché ho cominciato a vivere davvero come gli abitanti del quartiere: lavoravo saltuariamente, facevo l’idraulico o installavo scarichi fognari con un amico paraguaiano, perseguitato per ragioni politiche».
E la gente?
«Con il tempo mi hanno percepito come uno di loro. Anzi, nei momenti più bui, io mi sentivo al sicuro solo all’interno della villa miseria, dove altri non si sarebbero neppure sognati di mettere piede. Un passaporto che mi ero guadagnato sul campo».
[Marisa Restello, curatrice - con don Olivo Bolzon - del volume "Memoria di realtà intraviste"]
Perché te ne sei andato?
«Il Vescovo mi aveva messo insieme a un prete del Terzo mondo, Pablo, uno spagnolo. Avevo legato con lui. Quando il Vescovo decise di trasferirlo, andai a chiedergli ragioni. Neppure io ero tanto secondo i canoni. Ed è avvenuta una scenetta quasi comica: io mi autoaccusavo e lui mi difendeva. Ho deciso io di partire, ma ci ho tenuto a farlo in accordo con il Vescovo».
«La fedeltà agli emarginati ti trascina fuori dai canoni normali. Credo che la Chiesa, come qualsiasi istituzione umana, abbia per forza di cose le sue contraddizioni. Però sono sicuro di esserle fedele e di obbedire alle sue istanze».
Che cosa rimpiangi di quell’esperienza in Argentina?
«Di non aver potuto vedere i frutti di quel lavoro con la gente».
Che cosa ti è restato nella bisaccia?
«La villa miseria mi ha liberato, mi ha dato la consapevolezza che la vita può essere vissuta un giorno alla volta e che in realtà ci vuole pochissimo per viverla pienamente».
Nel 1976 sei tornato in Italia: che cosa hai trovato?
«Era un periodo della nostra storia molto effervescente. A Castelfranco Veneto c’era un gruppo di preti che si incontrava ogni settimana per portare avanti un lavoro in comune. Un’esperienza molto forte. Io però all’inizio ero tornato con la mia supponenza di missionario pensando di ripartire per il Brasile: avevo già un accordo con una comunità di piccoli fratelli. Non ambivo a un posto di parroco, volevo una vita di comunione con la gente. Poi però mi sono reso conto che quella esperienza di preti veneti era unica: c’era una grande condivisione, le decisioni erano maturate insieme, non si andava mai dal Vescovo da soli. Pian piano mi sono accorto che avrei potuto svolgere la mia missione anche qui. E così sono ritornato a vivere con i miei, sensazione stranissima dopo quasi sette anni di villa miseria. E mi sono messo a far l’idraulico con mio fratello».
I tuoi familiari comprendevano le tue ragioni?
«Non l’ho mai capito veramente». Il ricordo si vela di tenerezza e Claudio inizia a schermirsi. «Te lo racconto ma non scriverlo, non è importante. Un giorno mio padre mi ha detto: “con tutto quello che hai da fare, che cosa occorre che lavori?”. Io gli ho risposto: “Papà, mi ricordo che quando la mamma diceva: ‘sti poveri preti quanto lavorano’ tu rispondevi: ‘che i vegna ai forni, ae presse a vedere che cosa significa lavorare”. Allora mi ha risposto: “capisso e appresso, però mi no lo faria”. Non mi ha detto mai più nulla. Ma per me quel “capisso e appresso” ha un significato enorme. Mio padre lavorava in fabbrica, io ero l’intellettuale di famiglia. In casa ero vestito a festa. Lo confesso: mi sentivo un peso. Sono grato ai miei per non avermi mai fatto pesare la differenza».
Volevi dunque una vita di comunità, fuori dalla parrocchia ma in collegamento con la parrocchia: come l’hai realizzata?
«Ne ho parlato molto con gli altri preti: mi sentivo appoggiato e convalidato dal gruppo. Finché un giorno l’anziano parroco di Loreggia, don Antonio Serafin, mi disse: “sei convinto? E allora parti!”. E sono venuto in questa casa in affitto, era il 1978. Guardandomi indietro non so se avrei il coraggio di rifarlo. A questo punto mi si riproponeva lo stesso problema che avevo avuto in Argentina: che cosa faccio adesso? In che misura noi preti possiamo condividere la vita della gente? Fra l’altro anche qui ero una figura anomala: ero un prete senza parrocchia che però celebrava la messa in parrocchia, che lavorava e aveva un debole per persone poco raccomandabili».
E hai aperto le porte di questa casa ai tossici. Perché?
«Perché la tossicodipendenza era il problema di quei tempi, un fenomeno del tutto nuovo. I primi drogati erano gente impegnata che proveniva da gruppi parrocchiali ma anche da lotta continua o da associazioni. La droga era vista come una forma alternativa di socializzazione, un percorso di ricerca. In fondo anche la mia comunità era un’esperienza alternativa».
«L’ha accolta bene fin dai primi momenti anche se non in forma ufficiale. Il Vescovo di allora, Antonio Mistrorigo, a poche settimane dall’inizio della mia comunità, ha approfittato di una riunione di preti della zona per rivolgermi domande sul problema della tossicodipendenza e per chiedermi come mi trovavo. Questo è stato il suo avvallo».
«Volevo capire: credevo che l’emarginazione dei drogati fosse un’emarginazione da ricchi e quella della gente delle villas miserias un’emarginazione da poveri; in realtà l’emarginazione è sempre dei poveri cristi in ogni latitudine. Solo che al tempo non lo sapevo. Così mi sono rifiutato di chiamare quell’esperienza “comunità terapeutica” e l’ho battezzata ingenuamente “comunità di vita”. È stato un errore clamoroso. Pretendere di fare vita in comune con i tossici è autodistruttivo. Ti bevono il sangue, ti drenano le energie. Non puoi mai contare sulla loro sincerità, devi sempre sforzarti di leggere tra le righe».
«Mentre io continuavo nei miei sublimi discorsi comunitari un tossico mi ha detto: “Io sono venuto qua perché ho il problema della droga, non domandarmi di leggere tanti libri”. Colpito e affondato. Dolorosamente ho dovuto convenire che l’unica via d’uscita era passare alla comunità terapeutica, dove, è ormai chiaro, non condividi un bel niente. Abbiamo continuato per 10 anni, ma non avevamo né il personale né l’ambiente adatto. Ho chiuso per sfinimento. È stata un’esperienza di uno spessore umano enorme ma scientificamente improponibile. Però lì ho sperimentato gli abissi dell’emarginazione umana».
A capitolo chiuso, la tua bussola di missionario ti ha portato in contatto con un’altra emarginazione, quella degli emigrati stranieri. Come ci sei incappato?
«Tramite un altro prete, Giuliano Vallotto, che all’epoca, era il 1987, si occupava dell’accoglienza dei primi immigrati. Mi chiese di accoglierne alcuni. Mi sembrò un’occasione interessante. Ero entusiasta di conoscere un mondo nuovo, ricco e primordiale. E forse ero anche un po’ presuntuoso: in fondo ero già stato in America, io! Mi affascinava l’Islam, il suo rapporto diretto con Dio e poi l’idea di una vita comunitaria diversa, arricchita di altre culture. Così sono arrivati i primi tre senegalesi, che a loro volta hanno chiamato altri senegalesi. A quota sette ho detto stop. Non volevo fare una comunità di accoglienza, volevo convivere con loro».
«Beh, io avevo il pallino dello scambio culturale. Loro avevano semplicemente bisogno di un tetto e di un lavoro. Io volevo parlare, loro per cultura stanno zitti. E poi c’è l’ostacolo enorme della lingua. La nostra convivenza si basa sul condividere le spese e sul vivere assieme».
Ti hanno mai chiesto qualcosa sulla tua religione o sul fatto che sei un prete?
«No, e credo che della mia religione non abbiano capito poi molto. Solo una volta un marabù, il loro imam, mi ha chiesto una benedizione. Fine dei rapporti interreligiosi».
Qual è allora il valore di questa esperienza?
La scoperta della vera essenzialità. Loro vivono di pochissimo. Anche le poche parole fanno parte della loro frugalità. Io volevo far comunità, scambiare le esperienze, ma loro sono ben consapevoli di essere qui solo per bisogno, per mantenere le mogli e i figli. Ti riportano sempre con i piedi per terra. Ti fanno anche fare delle figuracce: se la gente li invita a cena sono capaci di fermarsi all’antipasto e rispondere piuttosto seccamente: “così mi è sufficiente, grazie”. Da loro ho capito il senso del Ramadan, che è un grande esercizio di disciplina. E ho capito che il digiuno è
fatto per chi soffre la fame, per chi mangia tanto è solo una terapia. Per loro il mezzo di interazione non è la parola e il luogo per comunicare non è la tavola imbandita come spesso è da noi. I senegalesi mangiano insieme da un unico piatto in soli dieci minuti. La comunicazione avviene dopo, finito il pasto: per questo le cerimonie del tè sono infinite ai nostri occhi. Stare con loro significa sperimentare altri spazi dell’essere».
Mentre Claudio conclude la frase, percepisco che tra loro non c’è solo una muta conoscenza, c’è un affetto profondissimo, di cui non parlerebbero mai. Ne ho la conferma quando Fallou appare, claudicante, coi capelli bianchi che rigano i fitti ricciolini. «Come stai Fallou?» chiede Claudio. «Sto benino» risponde. «Come al solito, dice che sta bene» ribatte Claudio, «a che serve dire che sto male?» conclude il senegalese, poi saluta gentilmente e se ne va. «Sta malissimo – mi spiega Claudio –, ha avuto un brutto incidente di lavoro, quando l’ho saputo mi è crollato il mondo addosso. Da allora ha subìto molte operazioni, non si è più ripreso. È qua come un’anima sospesa:
resta per poter continuare a mandare i soldi della pensione d’invalidità alla sua famiglia ma il suo cuore è in Senegal. Quelle rare volte che riesce a ritornare in patria, si rianima, si rimette in piedi nonostante il dolore e lascia qui il suo bastone: non svenderebbe mai la sua dignità».
Si è fatto tardi, è ora di andare. Claudio va in un’altra stanza a prendersi il cappotto. Cheihk esce inopinatamente dal suo silenzio e azzarda la seconda frase della serata: «Claudio è un uomo buono». Rimango un po’ sorpresa, lo guardo aspettando altre parole. Inutile. Lui sorride e ritorna nel silenzio. Saliamo in macchina. Fuori è buio pesto, la nebbiolina padana tremula dentro i fasci di luce proiettati dai fanali. Con la mente ripercorro le tappe del racconto di Claudio: in Argentina non ha potuto godere dei frutti del suo lavoro, né qui è diventato il patron di una comunità terapeutica per drogati ed ora con i senegalesi non condivide la parola, come si aspettava, ma il silenzio. È come un seminatore generoso, che non ha mai chiesto nulla per sé; la via per raggiungere gli ultimi non è lineare, ti dà scacco, ti mette sempre in gioco. Claudio ha fatto di tutto per entrare nel corpo e nel sangue della gente, come il suo crocifisso sulla porta, ma più entrava nella materia, più raccoglieva frutti immateriali, impercettibili all’occhio comune.
All’improvviso, mentre ci allontaniamo, quella casa mi sembra un faro e Claudio è il suo guardiano. Intorno la campagna veneta s’allarga come un mare. Quel faro ti ricorda che se credi veramente, Cristo lo trovi nell’ultimo con cui decidi di spezzare il pane. Anche se è un musulmano, superosservante e silenziosissimo, che non sa neppure cucinare.
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