Qui di seguito propongo la lettura della Nota introduttiva al mio libretto intitolato "Breve storia di Nizza e di altri territori italofoni", Edizioni del noce 2012, pp. 82, isbn: 978 88 87555 91 2.
Nota
introduttiva
Questi
appunti sono indirizzati a quanti, a vario titolo, sono interessati a
conoscere l'italianità della città di Nizza, che, insieme alla sua
Contea e alla Savoia, fu ceduta alla Francia come prezzo per
ottenerne l'appoggio militare nel cammino dell'unificazione della
nostra Penisola. Altri brevi capitoli di questo volume sono invece
dedicati alle regioni italiane definite irredente, ovvero quei
territori che, pur essendo geograficamente italiani e avendo una
storia e un passato culturale che li accomuna, anche per un lungo
periodo, alla nostra nazione, rientrano attualmente nei confini
politici di altri Stati. In particolare, per regioni irredente si
intendono la città di Nizza col suo territorio, la Savoia e la
Corsica (Francia), il Canton Ticino e alcune valli dei Grigioni
(Svizzera), l'Istria e la Dalmazia (ex Jugoslavia) e l'arcipelago di
Malta.
All'estero,
e purtroppo anche in Italia, ci sono luoghi comuni e stereotipi che
non alimentano il senso della nostra unità nazionale, la quale, in
questi ultimi venti anni, è stata anche ferocemente contrastata da
partiti e movimenti politici sorti soprattutto nell'Italia
settentrionale. L'intraprendenza industriale e le ricchezze morali e
culturali del Bel Paese sono inficiate dalla corruzione che dilaga
nelle strutture pubbliche a causa di scellerati accordi tra politici,
imprenditori e mafiosi, e anche la gerarchia della Chiesa cattolica,
in questi ultimi tempi, non appare credibile a larghi strati della
popolazione italiana.
In
generale, sembra che nel nostro Paese a farla da vincitori siano i
soliti furbi, che appartengono ad ogni categoria lavorativa e ad ogni
classe sociale. Non meraviglia allora che ogni anno, tra i
cinquantamila e i settantamila giovani italiani appena diplomati o
laureati abbandonino il nostro Paese in cerca di un'occupazione
all'estero, per non essere costretti a ricorrere a raccomandazioni e
ad altri aiuti similari, ma, soprattutto, animati dal desiderio di
trovare ambienti sociali e culturali che siano autenticamente a
misura d'uomo.
In
un'Italia che invecchia a causa di un basso tasso di natalità,
corrotta da politici accusati di ogni genere di reato, con
imprenditori che portano le proprie attività produttive in Paesi
dove i lavoratori non hanno diritti, e dove i cattolici - che
appartengono alla maggiore religione praticata nel Paese - fanno
fatica a seguire quei valori etici e morali che essi stessi indicano
ai connazionali, parlare di irredentismo può non solo sembrare
anacronistico, ma anche deleterio, perché, secondo il sentire
comune, può mettere a repentaglio quell'unità europea e
quell'armonia tra i Paesi occidentali che oggi sembrano l'unica
ancora di salvezza per uscire dalla crisi economica.
E
come si può pensare, poi, di rammentare l'italianità di città come
Nizza e Fiume o di regioni come l'Istria e la Corsica, quando tanti
italiani si vergognano di essere tali?
E
non manca pure chi - a torto o a ragione - sostiene che se certe
città e regioni non conoscono, ad esempio, la cementificazione
selvaggia e i fenomeni criminosi come la mafia, lo devono proprio
alla loro appartenenza politica a Stati che li hanno preservati da
questi mali. Non è questa la sede per di-scutere tali aspetti, anche
perché “la storia non si fa con i se”, ed è opportuno, invece,
precisare cosa si intende per “irredentismo”. Al riguardo,
ritengo che la migliore spiegazione sia quella che segue:
«Il
termine irredentismo indica l'aspirazione di un popolo a completare
la propria unità territoriale nazionale, acquisendo terre soggette
al dominio straniero (terre irredente) sulla base di un'identità
etnica o di un precedente legame storico. L'irredentismo può essere
inteso in un duplice modo: da un lato come il desiderio di alcuni
popoli che, vivendo in una terra soggetta all'autorità di un certo
Stato, vogliono distaccarsene per entrare a far parte dello Stato del
quale sentono la paternità e l'origine, ovvero costituire un proprio
Stato nazionale; dall'altro come la motivata pretesa territoriale di
uno Stato su una parte del territorio di un altro Stato. Non sempre le dispute
territoriali sono in realtà irre-dentiste, ma spesso vengono
presentate come tali per conquistare il sostegno internazionale e
dell'opinione pubblica. L'espressione "terre
irredente", cioè non liberate, fu utilizzata la prima volta dal
patriota e uomo politico italiano Matteo Renato Imbriani, nel 1877,
ai funerali del padre Paolo Emilio; un giornalista viennese lo definì
subito "irredentista" per dileggiarlo. Il termine è stato
acquisito nella forma italiana anche da altre lingue»1.
Alla
luce di questa definizione, il termine “irredentista” non si
identifica con quello, ad esempio, di “guerrafondaio” o
“fascista”, così come si vorrebbe in certi ambienti; piuttosto,
si può cogliere l'occasione per sostenere che per far sì che la
madre patria diventi una sorta di calamita, così da attirare a sé
le cosiddette regioni irredente, bisogna impegnarsi affinché la
nostra società migliori sotto tutti gli aspetti, e offra a tutti
concrete garanzie per una piena crescita morale ed economica.
L'Italia,
dunque, anche per gli irredentisti, non si deve costruire attraverso
una politica tendente all'annessione di regioni come la Dalmazia o
il Canton Ticino, ma attivandosi, invece, affinché dal posto di
lavoro, alla famiglia, ai condomini, si realizzino le condizioni per
ottenere una buona qualità della vita. Serve a poco o nulla
stigmatizzare la francesizzazione forzata che hanno subito i còrsi e
i nizzardi, se nei nostri luoghi di lavoro si verificano conflitti
tra colleghi e datori sotto forma, ad esempio, di mobbing. Oppure, a
cosa serve rimpiangere la perdita dell'Istria e della Dalmazia, se
non gradiamo la presenza di ragazzini un po' vivaci al parco-giochi
frequentato dai nostri figli? Credo, dunque, che il compito di ogni
irredentista non sia solo quello di trascorrere buona parte del
proprio tempo a voltare e rivoltare le pagine dei libri di storia, ma
sia soprattutto quello di impegnarsi per migliorare la qualità della
vita, a partire dal “piccolo” nella propria famiglia, per
arrivare, attraverso il luogo di lavoro, “passando” per il
quartiere, fino al “grande” delle scelte politiche, sociali ed
economiche.
Insomma,
con metodi pacifici e tendenti in primo luogo a perfezionare la
nostra società, si può essere irredentisti, ovvero persone che, tra
i diversi obiettivi che si sono posti, hanno messo per primo quello
di migliorare il proprio ambiente di vita, e poi quello di impegnarsi
affinché la lingua e la cultura italiana ottengano il posto che
meritano nelle regioni storicamente italiane, e che attualmente
rientrano nei confini di altri Stati: non è un auspicio illegittimo
visto che, giustamente, l'Italia garantisce la tutela della lingua
tedesca in Alto Adige e di quella francese in Valle d'Aosta, cioè in
territori che sono abitati da etnie e persone che per tradizione
usano idiomi diversi da quella italiana.
Sull'uso
del termine “irredentismo”, il prof. Giulio Vignoli2
precisa che:
«Il
termine “irredentismo” ha un suo significato ben preciso, assunto
per quasi un secolo e non è possibile modificarlo in quanto entrato
profondamente nell'uso comune di studiosi e no. Bisognerebbe trovare
o inventare un termine diverso che interpreti la diversa
impostazione data da Carlo Silvano, che condivido appieno»3.
Del
resto, la realtà delle cosiddette “terre irredente” è cambiata,
e occorre un nuovo approccio che tenga conto dell'attuale situazione
che, sempre il prof. Vignoli, sintetizza qui di seguito:
«Desidero
che sia ben chiaro che nelle nostre “Terre irredente” io sono
stato moltissime volte a partire dalla fine degli anni Ottanta del
secolo scorso, sempre con mezzi diciamo di fortuna: corriere,
trenini, a piedi, sempre parlando con il maggior numero di persone in
ogni dove. Parlare di irredentismo come questione attuale è del
tutto vano. L'irredentismo è stata una stagione eroica da esaminare
solo in sede storica. [...]. Indico ora paese per paese quella che mi
sembra la situazione attuale. A Malta esiste una piccolissima
minoranza che si ritiene italiana e agogna ricongiungersi con
l'Italia. La Gran Bretagna ha distrutto l'italianità dell'isola, nel
senso di sentirsi italiana, che esisteva fino all'ultima guerra.
Anche se allora c'era una minoranza che non si sentiva italiana. Gli
inglesi hanno strumen-talizzato i nostri bombardamenti aerei
sull'isola provo-cando un'azione di rigetto che non si è più
estinta. Poi l'Italia è un paese da operetta e la Gran Bretagna è
grande. […]. Quasi idem per la Corsica con la differenza che fino
all'ultima guerra i maltesi si consideravano a grande maggioranza
italiani, “Italiani di Malta”. In Corsica si sentiva soprattutto
la “corsicità” e anche l'ita-lianità, ma non nel senso
irredentistico di unirsi allo Stato italiano unitario, ma come Stato
a sé, indipendente. C'è una poesia del Tommaseo che dice
pressapoco: “Io vengo qui
fratelli còrsi e vi parlo dell'Italia, ma voi siete sordi...”.
A parte queste opinioni della maggioranza còrsa è anche giusto
ricordare che c'era un gruppo di intellettuali irredentisti
perseguitati con la famosa sentenza di Bastia del 1944; sentenza che
colpì intel-lettuali come Poli e Giovacchini. Da ricordare anche il
partito autonomista di Petru Rocca, che poi si volge
all'irredentismo.
Nei Cantoni svizzeri
italofoni è certo che gli abitanti si dicono italiani, ma non
sentono alcun richiamo irre-dentistico. Anche prima della guerra solo
pochi perso-naggi come Rosetta Colombi e Teresina Bontempi por-tavano
avanti un discorso irredentistico. Ora questo è estinto. Ma
l'importante è che la nostra cultura persista. Un “riattaccamento”
alla Repubblica italiana non ha im-portanza, del resto anch'io a
volte vorrei essere ticinese o grigioni italiano. Sono stato anche a
Bivio, il paesino oltre il Giulia che aveva la italofonia. Ebbene, la
Elda Simonett che ha combattuto per anni perché questo status
rimanesse, mi diceva: “Io non ho mai sentito il richiamo
irredentistico. Perché devo far parte della Repubblica italiana? Io
sono italiana, ma voglio rimanere in Svizzera. Del resto a San Marino
cosa dicono?”.
Gli unici italiani che ho
sentito esprimere opinioni irredentistiche sono quelli rimasti in
Venezia Giulia e a Zara. Ma sono poche migliaia in Istria e a Fiume,
e poche centinaia in Dalmazia. Visti con sospetto dagli slavi. Fare
un'azione irredentistica presso di loro è condannarli all'estinzione
ad opera degli slavi. E poi certe pretese territoriali su tutta la
Dalmazia sono inaccettabili. Ci soccorre sempre Tommaseo che diceva
che la Dalmazia è il lembo d'Italia, cioè solo la zona costiera.
Basta andare a pochi chilometri nell'interno di Spalato o di Zara per
vedere panorami, cittadine, paesoni che nulla hanno di italiano, di
impronta italiana, ma molto dell'interno croato che anch'esso ho
visitato. Sono stato fino ad Osijek.
Si tenga presente che certe
pretese del fascismo sulla Dalmazia e la scritta portata dai nostri
soldati che occuparono la Corsica ("La Corsica è nostra")
furono deleterie per la nostra causa.
Naturalmente la Repubblica
non si è mai occupata di niente e i suoi degni cittadini al 98% non
sanno niente di niente. Mi facevano notare alcuni maltesi che i
turisti italiani quando arrivano nella loro isola, parlano subito in
inglese e non si accorgono neppure che tutte le televisioni sono
accese su programmi italiani...»4.
Prendo
spunto dalle pretese del fascismo sulla Dalmazia, ora accennate da
Vignoli, per sostenere che il termine “guerrafonaio” non deve
appartenere all'identità dell'irredentista che, invece, è chiamato
a credere profondamente nel valore della pace e nella necessità di
ridurre le spese militari. Perso-nalmente, ad esempio, ho sempre
ritenuto un gravissimo errore il dono di cinque motovedette da parte
del governo di Silvio Berlusconi a quello del defunto dittatore
libico Mu'ammar Gheddafi: imbarcazioni militari offerte per il
pattugliamento di un braccio del mar Mediterraneo nel tentativo di
arginare il fenomeno dell'immigrazione clandestina, che, con ogni
probabilità, hanno solo causato sofferenze e drammi a persone che
scappavano da situazioni di guerra. Riguardo ai fenomeni migratori
provenienti dall'Africa sono convinto che, se da un lato vi sono
uomini, soprattutto tunisini e marocchini, che tentano di venire in
Italia col proposito di perseguire fini criminali, dall'altro:
«Ci
sono persone che provengono dal centro Africa con tutta quella realtà
tipica dei loro Paesi di origine, come guerre, carestie, epidemie e
fame. Scappare è la loro unica carta da giocare, perché, piuttosto
che una morte certa nel loro villaggio, preferiscono affrontare
l'interrogativo che si cela dietro un lungo viaggio: sono
consapevoli, ad esempio, che quando attraverseranno il deserto del
Sahara, si troveranno a camminare ai lati di una lunga scia di
cadaveri umani, cioè di persone - spe-cialmente donne e bambini -
che sono morte di stenti»5.
Di
fronte alla fuga di queste persone, nessuno può innalzare barriere
o, peggio, armare un dittatore per compiere dei crimini: è noto,
infatti, che molti africani sono stati uccisi nel deserto o catturati
e deportati in campi di prigionia dai soldati libici. E non si può
escludere che le motovedette donate dall'Italia alla Libia siano
state utilizzate anche per aprire il fuoco contro i barconi carichi
di migranti in fuga6,
visto che pure un peschereccio italiano è stato mitragliato da una
di queste unità navali. Per chi crede nell'irredentismo, affrontare
questi argomenti, questi drammi, è importante non solo per una
questione di giustizia, ma anche perché non si può parlare delle
cosiddette pulizie etniche subite dagli italiani, ad esempio in
Istria e Dalmazia, e chiudere gli occhi sulle tragedie che oggi altri
popoli sono costretti a subire.
Credo
che dalla conoscenza dell'italianità di quelle città, isole e
regioni che vengono descritte nelle pagine che seguono, potremo un
po' tutti trovare non solo un maggior orgoglio nell'appartenere alla
nazione italiana, ma anche un maggior vigore per impegnarci nelle
nostre realtà quotidiane in difesa delle persone più deboli.
Per
dare il mio contributo allo studio e alla tutela delle regioni
irredente, con alcuni amici ho fondato l'Associazione culturale
“Nizza italiana”, di cui, in appendice a questo volume, è
stato inserito l'Atto costitutivo e lo Statuto, che, tra i suoi fini,
annovera appunto la promozione dell’identità storico-culturale e
linguistica italiana, sviluppando nei confini geografici italiani il
sentimento d’italianità e alimentando i legami socio-culturali dei
connazionali all’estero con la madre patria.
CARLO SILVANO
Villorba, marzo 2012
_________________________
Note:
1Tratto
da “Wikipedia”.
2Il
prof. Giulio Vignoli (Genova, 1938) è stato docente di Diritto
internazionale all'Università di Genova e da anni si occupa di
minoranze nazionali e lingue minoritarie. Tra le sue numerose
pubblicazioni si ricordano: “I territori italofoni non
appartenenti alla Repubblica italiana” (ed. Giuffrè); “Gli
italiani dimenticati. Minoranze italiane in Europa” (ed.
Giuffrè); “La vicenda italo-montenegrina (ed.
Ecig); “Il sovrano sconosciuto. Tomislavo II re di
Croazia” (ed. Mursia); “L'olocausto sconosciuto. Lo
sterminio degli italiani di Crimea” (ed. Settimo sigillo).
Giulio
Vignoli vive a Rapallo ed è socio ordinario dell'Associa-zione
culturale “Nizza italiana”.
3Giulio
Vignoli, “Comunicazione personale” del 18 febbraio 2012.
4Giulio
Vignoli, “Comunicazione personale”, cit..
5Pietro
Zardo, intervistato da Carlo Silvano, “Condannati a vivere. La
quotidianità dei detenuti del carcere di Treviso raccontata dal suo
cappellano”, Ogm editore 2009, pp. 15-16.
6Sull'uso
che la Libia ha fatto delle motovedette donate dall'Italia, l'ex
ministro Roberto Maroni, che partecipò alla cerimonia di consegna
delle unità, dovrebbe, a mio avviso, dare tutte le spiegazioni del
caso ad un'apposita commissione parlamentare.
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