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Diario di un prete-spazzino trevigiano


Piccolo di mole, esattamente cinquanta pagine di testo, ma notevole per contenuto umano, spirituale e pastorale.

Una cronaca asciutta, pungente, senza nulla concedere a divagazioni letterarie, o a descrizioni di ambienti e di luoghi, sia di quelli squallidi come i casermoni dove ospitavano gli emigrati di varie provenienze, sia quelli prestigiosi come la monumentale Cattedrale di Colonia.
È come un succedersi di foto in bianco e nero in cui sono fissati i tratti essenziali dei personaggi e dei loro sentimenti.

Il filo conduttore del "Diario" di don Olivo Bolzon in ogni sua pagina è l'idea, la passione, il desiderio ardente per "l'evangelizzazione dei poveri", con la constatazione dolorosa: "I poveri non sono evangelizzati". Alla pagina 42 scrive: "Sempre più ho coscienza della miseria in cui noi li abbiamo abbandonati e della necessità urgente per la Chiesa di evangelizzare i poveri. Non vedo però come".
E a pagina 70: "Mi pare che questi miei amici siano aperti al Vangelo come un fiore è aperto al sole. Solo che non lo possono ricevere perché nessuno glielo dà. Mi impressiona sempre più il grave fatto di questa mancata evangelizzazione".
Non si tratta di una operazione individuale. Riguarda tutta la Chiesa: "Ho il desiderio ardente che tutta la Chiesa si accorga dei poveri e per questo vorrei stare con essi, anche se la vita qui è dura, terribilmente dura, banale, monotona, triste, inutile. Alle volte ho il dubbio di star facendo qual cosa di assolutamente inutile, stupido, e vorrei che qualcuno mi parlasse. Ma per questo non potrò avere che silenzio e ancora silenzio. "Mi sento veramente solo" (p. 60). "La Chiesa non si accorge dei poveri" (p. 51).

Sono gli Stati d'animo di abbandono, di solitudine, di inutilità che spesso traspaiono. È da qui che insorge nel giovane prete che ha deciso di trascorrere un mese svolgendo il lavoro di spazzino nella città di Colonia, una serie di esigente forti, urgenti, irrinunciabili. La prima, appunto, è il bisogno di Chiesa. Una Chiesa che si faccia carico di quella che è la sua missione fondamentale: "Mi ha mandato per evangelizzare i poveri". È assurdo inviare un suo ministro, un suo sacerdote in una frontiera così esposta dove regnano miseria, degrado, disperazione; là dove l'uomo perde la sua dignità ed è ridotto quasi a livello di bestia da soma, e poi lasciarlo solo, come si trattasse di una impresa privata, di un progetto solitario.

La Chiesa tutta intera va nell'inferno degli ultimi della terra. Ci va col suo inviato, col suo prete e lo sostiene, lo accompagna e si fa ricca della sua esperienza, facendola diventare esperienza di tutti e spinta ad una reale conversione al Vangelo. La seconda esigenza è quella della "Santa Messa". Così la definisce, con voluta riverenza. (p. 43). Il bisogno di celebrare. Ma non gli viene offerto un altare. Non coincidono gli orari! Almeno partecipare all'Eucaristia, poter fare la Comunione. Tutte le volte che può. E quando non ci riesce, perché non dispone della giornata a suo piacimento, vi è in lui una sofferenza persino fisica per essere privato di una realtà che lì diviene una ragione di vita, di equilibrio, di consolazione. Altro che "dire Messa" per abitudine, o per ufficio!

E poi vi è la preghiera: "Mi pare che la mia preghiera in questo periodo si sia fatta più vera, concreta, intensa. Ripenso sempre a San Paolo (Efesini): "Prigioniero di Cristo per voi, per annunciarvi il suo Vangelo" (p. 61).

Una preghiera che non è un ripiegarsi su se stesso, il rifugiarsi in un angolo consolatorio, lontano dalla miserabile condizione degli altri. "Da parecchi giorni penso alla preghiera e credo di aver scoperto una grande realtà: la preghiera non è solo invocazione, troppo comoda, ma è impegno di tutto se stesso a realizzare la volontà di Dio nella condizione in cui siamo. Quando si prega per gli altri, per esempio per l'evangelizzazione di questi uomini, tale preghiera sarà vera e riuscirà veramente efficace solo nella misura in cui noi, pregando sinceramente, usciremo dal nostro comodo egoismo, ci allontaneremo dalla nostra soddisfatta tranquillità e ci avvicineremo rompendo gli ostacoli, divisioni ecc... in un impegno possibile con la nostra posizione e vocazione, ma fattivo e concreto, verso chi non è evangelizzato. Così la preghiera è continuamente uscire da se stessi per entrare nella Volontà di Dio, sia che preghiamo per noi, sia che preghiamo per gli altri, ed è un mettersi a disposizione di Lui e un effettivo collaborare con Lui" (p. 71).

Una sintesi non teorica di teologia spirituale sperimentata e vissuta mentre si svolge un lavoro così umile accanto ad alcuni compagni a cui nessuno ha insegnato a pregare (p. 41).

Il "Diario" rivela in ogni pagina un grande amore verso quelli che sono gli ultimi, il cui lavoro: "avvilisce sempre più la persona umana (p. 41). "Mi pare di amarli, e mi pare che fra me e loro è nota una reciproca simpatia, manifestata da segni di gentilezza, da reciproci favori" (p. 51). Ma vi è una sofferenza: non si riesce ad essere veramente "come loro". "Uno di loro". Essi "sentono che io non sono del loro mondo" (p. 51). Il giovane prete vorrebbe dare tutto se stesso a questi poveri che sono diventati suoi compagni di strada perché ognuno di loro "ha diritto a ricevere la totalità di noi stessi, quella totalità che nel Cristo abbiamo raggiunto e in Lui abbiamo imparato a donare. Ogni arresto a questo desiderio, a questa ricerca, è egoismo e peccato contro l'Amore, perché riserva al nostro egoismo qualcosa che appartiene all'Amore, a Cristo e agli uomini" (p. 53).

Si pone la questione se rimanere o partire: "Tutti mi dimostrano stima e simpatia: i marocchini mi hanno voluto regalare della frutta. Mi dispiace di non poter restare più a lungo e di non vedere tutta la Chiesa impegnata con me. Sono sicuro che questi poveri attendono il Vangelo e lo amerebbero molto...Quando uno si accosta a loro, senza secondi fini, per puro amore, gratuitamente, si sentono rivivere" (p. 73). La partenza è necessaria, ma dolorosa. Non è una fuga, ma una conferma di fedeltà: "L'ultimo giorno come spazzino e addio ai miei compagni di lavoro: lavoro monotono, noioso, ma fatto per voi con tanto amore. Desidero restare fedele a voi e ringraziarvi perché mi avete aiutato a seguire più da vicino Gesù" (p. 76). "C'è ancora molto da fare nella mia vita per essere povero ed umile come voi". È un commiato che ha come conclusione una nuova presa di coscienza. "Sento che soprattutto a loro io appartengo" (p. 77).

* * * * *

Questa storia non avrebbe nessun senso se non vi fosse una ragione intima da cui essa dipende, un centro attorno a cui girano quelle giornate tra Luglio e Agosto 1964, monotone, noiose, piene di fatica e di solitudine. Un giovane prete fa una scelta che a lui pure sembra "stupida", di diventare compagno di lavoro di alcuni spazzini di una ricca città tedesca. Perché? La risposta è una sola: essere fedele a una chiamata, quella di seguire Gesù Cristo nella sua povertà, nella sua abiezione, nel suo farsi nulla. L'intimissimo rapporto con Cristo costituisce la radice di una tale decisione.

Il protagonista del "Diario" ci rivela il suo segreto. Lo fa con semplicità e con lo stile sobrio che si confà alle confidenze quando queste introducono nella sfera più gelosa della propria persona. Questa vicenda, allo stesso tempo interiore e apostolica, si svolge avendo come sfondo l'esperienza di San Paolo, quella descritta in Efesini e Filippesi. Queste lettere, come in filigrana, seguono e accompagnano la quotidiana meditazione del prete operaio. Solo qualche accenno: "Io prigioniero di Cristo, ho l'incarico di trasmettervi la sua grazia" (Ef.).
Segue il commento: "Sono qui per questa gente, i più poveri, e devo vivere per essi". Prima ancora devo essere prigioniero di Cristo, cioè devo darmi a Lui in maniera totale, decisiva e perché totalmente di Cristo debbo occuparmi dei poveri... Sento un bisogno immenso della sua luce e un desiderio infinito che egli mi faccia fedele con tutta la mia persona.

"Prigioniero di Cristo" è una frase che molto mi ha fatto impressione e che vorrei vivere nella totalità" (p. 47). "Vi amo con l'amore di Cristo" (Fil.). Ed è così che vorrei amare questi miei amici" (p. 61). "Ho compreso quanto bisogno abbiamo di essere Cristo": ("Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù") e come però sia assai difficile essere Buon Pastore, donare davvero la vita" (p. 67). "È questa la grande scoperta di questo mese ed insieme il limite... vorrei tanto purificare la mia vita, accettando e amando qualunque sacrificio per essere tutto di Cristo e dei miei fratelli. Anzi, "considero tutto una perdita di fronte alla suprema cognizione di Cristo Gesù mio Signore, per il quale mi sono privato di tutto, e tutto ho stimato come immondizie, allo scopo di guadagnare Cristo..., (Fil 3, 8ss) (p. 73).

Il "Diario" dichiara: "Desidero con tutta la mia vita realizzare ciò". "Dimentico tutto quello che è indietro... o Signore, che il mio passato sia veramente superato da un amore a Te forte e concreto, che mi attira sempre di più". "L'amore è esigente perché è totale e richiede la purificazione di ogni giorno, di ogni istante, di ogni azione; richiede che io sia sempre presente a me stesso per potermi donare in ogni istante a Te. Attirami, o Gesù, e sii sempre tutto il mio ideale, l'unica meta" (p. 75).

* * * * *

Nella sua ampia e acuta introduzione Marisa Restello, a conclusione, rivolgeva un interrogativo: "Molte cose sono passate nella Chiesa come nella società, ma c'è ancora qualcosa di profondamente attuale nelle domande che il "Diario" pone?". Io credo che non ci sia soltanto "qualcosa" di profondamente attuale, ma nel suo insieme, nel suo significato spirituale e apostolico il "Diario" è
tutto fortemente attuale.

Mi verrebbe da chiedere, per esempio, quale sia il livello della nostra celebrazione eucaristica. Il nostro "dir Messa" quotidiano. Nel "Diario" vi è questa provocazione: "... Lo sentivo con violenza oggi nel Duomo: il sacerdote dovrebbe celebrare nella sua vita una sola Messa e poi morire, scomparire, in qualche modo disfarsi nel Cristo. Se la mia vita potesse essere intimità totale col Sacrificio Redentore del Cristo e io potessi essere nella realtà totale offerta con Lui, solo allora potrei parlare della Messa" (p. 44).

Non solo il Celebrare, ma tutto il messaggio così come viene offerto, soprattutto ai poveri, ha bisogno di essere riportato alla freschezza e al vigore delle origini. "Abbiamo complicato molte cose e al termine di queste complicazioni uno può sentirsi in regola, ma il Vangelo è semplicità, è tenerezza, amabilità". Qui riferisce l'amicizia di San Paolo verso i Filippesi, verso le persone concrete della Comunità per concludere che: "Cristo è vivo e presente nella sublimazione di queste semplici e fondamentali realtà umane. Quando ci si ama davvero con tutto il cuore è nel Cristo che ci si vuol bene, è Lui presente in mezzo a noi. È da Lui che viene l'amore!" (p. 70).

Quanta attualità in questa sofferta constatazione: "Mi è tanto difficile vedere nella pastorale d'oggi, in concreto, Cristo alla ricerca della pecorella smarrita". È terribile pensare che "la Chiesa è la Chiesa di tutti e specialmente dei poveri, e poi vedere come nulla è oggi in grado di fare per l'evangelizzare per i poveri: il suo quadro liturgico, la sua maniera d'insegnare, le sue preoccupazioni di costume morale non sono per nulla adatte a costoro che fanno questo lavoro, con questo orario, che vivono ai margini della società, che non sono uomini adulti. Eppure sarebbero questi i preferiti da Cristo" (p. 41).

* * * * *

In tutto il "Diario" non appare mai neppure l'ombra di un atteggiamento polemico nei confronti della Chiesa, al contrario, si coglie un grande amore, una appassionata necessità di Chiesa. Proprio per questo è necessaria la domanda: oggi, nel suo insieme, la Chiesa è protesa con tutte le sue migliori energie verso l'evangelizzazione dei poveri? E se lo sguardo si fissa soprattutto sul prete: vi è oggi, in modo concreto, la scelta preferenziale dei poveri? Sembrano ormai tempi remoti quelli, nei quali dei sacerdoti (e neppure pochissimi!) hanno potuto decidere quel modo di essere che viene descritto nel "Diario": vivere con gli ultimi, spinti da una tale urgenza apostolica, animati dal desiderio di assimilarsi a Colui che pur essendo ricco si è fatto l'ultimo e il servo di tutti.

Il Prado Italiano è nato in quel crogiolo di idee, di spinte Conciliari, di fermenti di rinnovamento e guai se perdesse quella tensione umana ed evangelica dei primi tempi. Qualcuno, durante l'ultimo Convegno, ha avuto l'impressione di vedere un Prado stanco. Spero che non sia così. I primi a tener lontane da se stessi stanchezza e rassegnazione dovrebbero essere proprio gli anziani. A loro, secondo la sua maniera si rivolgeva Olivo: " Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come come loro..." (1 Pt 5,1), a essere testimoni di ciò che il vero Pastore ha compiuto nella vostra vita. Raccontare "le opere meravigliose", non in un esercizio di senili e malinconiche rimembranze, ma per ricevere e trasmettere quelle forti motivazioni che animano e sorreggono le scelte di un oggi divenuto così complesso e problematico. Il "Diario" che dovrebbe essere pubblicato integralmente appartiene a questo genere di narrazione. Il patos che esso comunica ci aiuta a tener desta in noi quell'alta tensione spirituale che ci ha guidato, in quegli stessi anni a compiere scelte, interiori e apostoliche, che hanno dato senso alla nostra vita.

Olivo Bolzon, "Diario. Un prete della diocesi di Treviso racconta la propria esperienza lavorativa come spazzino nella città di Colonia 1964", Ogm editore 2007, collana "Questioni di identità", pp. 80, euro 8,00 [Distribuito da Tredieci: Via Leonardo Da Vinci, 5 - 31050 Ponzano Veneto - TV Tel 0422 440031 Fax 0422 963835].

don Giuseppe Delogu

Commenti

Carlo Silvano ha detto…
inserisco un testo di don Silvio Favrin riguardante il Diario di don Olivo Bolzon.

Per una Chiesa povera di potere e di ricchezza

di don Silvio Favrin

Il “Diario. Un prete della diocesi di Treviso racconta la propria esperienza lavorativa come spazzino nella città di Colonia” di don Olivo Bolzon (Ogm editore 2007, pp. 80 euro 8,00, isbn 978-8895500-01-0) offre, a mio avviso, tre risposte per non separare la fede dalla vita, la Chiesa dal mondo, il prete dal laico. E’ un racconto di un’esperienza in “terra straniera”: un breve e intenso periodo di “deserto”. “Condotto dallo Spirito” sulle strade di Colonia don Olivo ha dovuto interrogarsi per dare risposte a una triplice “tentazione”: come saper vivere da “vero discepolo di Gesù Cristo” nella tragica realtà dell’emigrazione condividendo la condizione degli spazzini italiani, tra gente emarginata, sradicata dalla propria terra, lontana dalla famiglia, costretta a un lavoro “sporco”, in un ambiente ostile diverso dalla propria lingua e cultura dove spesso si perde la libertà e la dignità.

Noi italiani abbiamo vissuto nei nostri paesi la sofferenza di dover lasciare la casa e partire senza sicurezze per guadagnare un boccone di pane e per arricchire l’Italia. Il nostro attuale benessere è anche frutto di quei sacrifici. Dopo le grandi migrazioni verso l’Australia e le Americhe, il flusso di uomini e donne si è spostato negli anni ’50 e ’60 in Europa: nelle miniere di carbone (come in Belgio a Marcinelle) o a dissodare terreni incolti in Francia o, ancora, ad occupare lavori rifiutati dagli abitanti indigeni.

Ed è stato “un segno dei tempi” vissuto dai poveri l’inizio dell’Unione europea, sognata da grandi politici, ma costruita col sudore, il coraggio e i sacrifici di tanti operai e contadini stranieri. Adesso, proprio noi, stirpe di emigranti, non sappiamo ricordare, per accogliere in spirito di fraternità, la presenza di immigrati spinti dalle stesse motivazione dei nostri e li giudichiamo “brutti, sporchi, cattivi”: una invasione barbarica che distrugge i valori occidentali.

Come il cristiano e il prete devono essere mediatori evangelici per un incontro tra persone, nel rispetto della diversità e dei diritti e doveri di tutti? Un altro interrogativo interessa don Olivo e a noi. Quale deve essere la presenza della Chiesa nel mondo di oggi? L’Incarnazione è il dono di Dio che si fa uomo tra gli uomini per la salvezza dell’umanità. La Chiesa deve continuare il mistero dell’Incarnazione seguendo Gesù umile e povero: per evangelizzare deve “incarnarsi” dove è e vive la gente. Una Chiesa povera di potere e di ricchezza, testimone dell’amore di Cristo che si fa povero per arricchirci. Tra il proletariato, il mondo operaio e la Chiesa esiste un gravissimo distacco ed è necessaria una presenza che sappia condividere le gioie e le speranze, le gioie e le sofferenze e lottare insieme per la sofferenza e la pace.

Un’altra “tentazione” infine interroga la persona: tu cosa pensi, tu come vivi, tu quale testimonianza dai? La risposta deve essere personale.

Per molti anni nella Chiesa, tanti sacerdoti hanno scelto di essere “preti operai”. Perché un prete rinuncia a un ambiente di preghiera e sacrifica il nobile compito di salvare le anime per stare tra intercalari volgari e bestemmie, per scegliere l’anonimato di una fatica dura, ripetitiva, triste? Assieme a gente analfabeta don Olivo deve nascondere la sua identità di prete e di intellettuale per non dover sopportare una... “umiliazione a rovescio” (pp. 16-17). E’ la volontà di vivere “come loro” per un autentico dialogo con il mondo del lavoro; è il desiderio di camminare insieme, essere compagni di viaggio per una vera evangelizzazione e promozione umana, per una maggiore giustizia e solidarietà e per verificare che è possibile credere, pregare e seguire Cristo nel suo Vangelo anche in situazioni “di confine” tra dubbi, sofferenze e povertà. E scoprire che “i lontani” sono anch’essi amati da Dio e capaci di bontà, generosità e amore. (don Silvio Favrin)

Olivo Bolzon, “Diario. Un prete della diocesi di Treviso racconta la propria esperienza lavorativa come spazzino nella città di Colonia”, Ogm editore 2007, pp. 80 euro 8,00, isbn 978-8895500-01-0. Collana “Questioni di identità”, diretta da Carlo Silvano. Il volume può essere richiesto contattando il centrostudipaoli@libero.it.

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